Immaginari personali e collettivi
Gabi Scardi

Da diversi decenni all’interno del vasto e parcellizzato panorama dell’arte contemporanea esiste una specifica accezione: quella che, insistendo sull’intento progettuale e costruttivo degli artisti, vede nel loro operato una concreta opportunità di adesione alla realtà e un’occasione di intervento nella sfera pubblica; una possibilità di rispondere alle esigenze del presente evocando un senso di condivisione e proponendo, e sperimentando, modelli alternativi a quelli esistenti; un agente di crescita e di sviluppo sostenibile nei processi di trasformazione, soprattutto a livello di vita civile e di collettività territoriali.

Si tratta di un orientamento riscontrabile a livello internazionale nell’attitudine e nella pratica operativa di un numero crescente di artisti: artisti ricettivi e sensibili nei confronti del contesto e particolarmente attenti ai temi centrali del dibattito pubblico attuale, in quanto mossi da un impegno che riguarda contemporaneamente l’arte e il mondo. In molti casi, pur mantenendo un orizzonte di riferimento globale, questi artisti scelgono di muoversi in una dimensione locale e di operare a stretto contatto con il territorio e con i suoi abitanti, all’interno di strutture dell’interazione sociale e culturale già esistenti.

Li stimola a lavorare in questo senso la convinzione che l’arte possa esprimere il massimo del proprio potenziale trasformativo nel rapporto diretto con i luoghi e con gli individui.
L’esperienza di A Cielo Aperto costituisce un’occasione per fare il punto sul senso, sulle modalità e sui possibili sviluppi dell’arte quando gli artisti si trovino a operare in relazione a un contesto locale e alle sue specificità.

Il sito in questione è Latronico, un paese del Parco del Pollino, in Basilicata. La collocazione è laterale rispetto ai centri maggiori e alle traiettorie italiane più frequentate. Questo, però, non significa che il paese viva una situazione di staticità o di isolamento.

Latronico è interessato a fenomeni di trasformazione, di remix, di mobilità geografica, di coesistenza di culture. La sua realtà sociale, economica e culturale è legata a un passato che oggi può essere letto in termini di tradizione; ma è anche calata in un presente che coniuga il locale e il sovranazionale: in tempi globalizzati non è possibile dare per scontato il rapporto tra luogo e cultura; soprattutto in un’area caratterizzata da forte emigrazione, come lo sono alcune regioni del Sud Italia, e la Basilicata in particolare.
Il progetto è stato innescato da una realtà interna al paese, l’Associazione Culturale dedicata a Vincenzo De Luca, operaio che viveva e lavorava in Lombardia e amava l’arte. La spinta iniziale e le motivazioni che hanno stimolato l’iniziativa sono dunque interne e radicate.

Nella sua forma attuale, A Cielo Aperto è l’esito di diversi anni di lavoro. Il progetto si è andato manifestando con coerenza, con continuità e con una vitalità crescente. Ha finito per coinvolgere una parte consistente del paese, in termini di numero di persone che partecipano attivamente agli interventi e di strutture direttamente o indirettamente interessate dalle attività.

Tra gli artisti coinvolti, diversi hanno una relazione diretta con il territorio; altri l’hanno costruita, con un lavoro che ha richiesto tempo, impegno, tenacia.
Un elemento distintivo di A Cielo Aperto è l’impegno di alcune figure legate al paese, tra le quali Pasquale Campanella e Bianco-Valente che hanno agito come catalizzatori nello sviluppo dei progetti.
Queste figure hanno potuto fungere da ponte, trasmettendo agli artisti coinvolti un senso di familiarità rispetto al luogo e la conoscenza del suo tessuto relazionale. La loro presenza ha contribuito a far emergere le potenzialità di Latronico, su cui poi gli artisti hanno fatto leva.

I singoli progetti si sono sviluppati con temporalità diversa; tutti, comunque, in un arco di tempo dilatato. La durata ha consentito agli artisti di mettere in campo un buon grado di attenzione e di impegno diretto, e di stabilire contatti con gli abitanti.



Gli elementi fin qui menzionati hanno contribuito in modo decisivo al fatto che il paese si possa riflettere e riconoscere nell’operato degli artisti e nel progetto complessivo. Si è evitato il rischio che i progetti venissero semplicemente catapultati in loco. Vuoto di conoscenze specifiche, tempistiche poco realistiche e difficoltà a familiarizzare sono infatti il limite di molte iniziative sul territorio che si dichiarano partecipate. Avviene che i
progetti si riducano a incursioni degli artisti su territori da cui trarre nuovi stimoli e su cui proiettare nuove visioni; e che gli usuali frequentatori del luogo li percepiscano, semplicemente, come estranei. Il risultato, in quei casi, è che si generi un senso di divaricazione e di alterità - quando non di strumentalizzazione - difficile poi da scardinare.

Con A Cielo Aperto i momenti di contatto e di esplorazione, e le fasi successive legate alla realizzazione dei progetti, si sono innestati profondamente nel contesto del paese.
Facendo leva su specificità e competenze locali, oltre che sul protagonismo individuale, le energie del paese sono state convogliate in momenti informali di incontro e in fasi di lavoro collettivo, ogni volta diverso a seconda dei progetti. Le distanze si sono accorciate reciprocamente e la crescita di A Cielo Aperto si è accompagnata a una reale adesione da parte degli artisti e a un aumento di interesse e di coinvolgimento da parte degli abitanti.

L’interesse si è appuntato sulla realtà socio-economica dell’area, come nell’opera Ogni dove in cui Bianco-Valente si focalizzano sulla questione cruciale dell’emigrazione, collocando nel centro storico un’opera dedicata al legame tra chi resta e chi parte. O sul linguaggio e sulla sua capacità di distillare contenuto, come nel caso del progetto di Stefano Boccalini Una parola su Latronico. O sugli emblemi stessi dell’identità, le bandiere, come nel caso di Eugenio Tibaldi, che con l’apporto di moltissime persone ha creato Una bandiera per Latronico: segno di appartenenza per gli abitanti del paese, messaggio per chi lo vedrà da fuori, questo vessillo sventolante sulla città vecchia non esprime autorità ma senso di condivisione rispetto a un luogo che dà a ognuno la possibilità di sentirsi a casa.



Ancora, l’attenzione degli artisti si è rivolta alla memoria, individuale e collettiva, e ai suoi vuoti, che sono essenziali perché lasciano un varco all’immaginazione. Tra storia vissuta e verosimile si è mosso Francesco Bertelé con il progetto Centocapre che, coniugando testimonianze reali, leggende, dicerie ed enigmatici ritrovamenti, ha generato insieme al paese una narrazione locale nuova, fluida, ambivalente, ma attraente.
Nel caso di Wurmkos l’interesse è andato a oggetti e pratiche rituali del passato, che sono risultati essere straordinari concentrati di sapere ereditato. Nel loro intervento Cénte, come nel progetto A Cielo Aperto nel suo complesso, tra gli elementi che emergono significativamente c’è l’evidenza di una reciproca attrazione tra arte contemporanea e scienze sociali. Più in particolare, esiste una chiara convergenza tra arte contemporanea e ricerca etnoantropologica.

In questo senso, il progetto si colloca all’interno di una tendenza internazionale già decretata dalla critica nel 1995 con la pubblicazione di Hal Foster The artist as ethnographer?; tendenza confermata nel 2002 da una mostra decisiva, Documenta XI, a cura di Okwui Enwezor. In quell’occasione Enwezor si concentrava su come l’arte si possa inserire nella relazione dialettica tra l’individuo e il mondo in trasformazione e su quale ruolo possa avere, in termini non solo di lettura del presente, ma di visione costruttiva, rispetto alle dinamiche geopolitiche attuali.

In realtà in Italia la prossimità degli artisti rispetto alle ricerche degli etnoantropologi, in termini di interessi e di pratiche di rappresentazione, era già un fenomeno riscontrabile negli anni Sessanta e Settanta.
Se l’avvicinamento tra arte e antropologia è in corso da tempo, oggi lo scambio reciproco è esplicito e quanto mai intenso: gli artisti guardano all’antropologia in quanto sempre più interessati agli aspetti contestuali del lavoro, e quindi alle modalità, alle pratiche e ai processi in opera in campo etnoantropologico. A questa tensione corrisponde il desiderio, da parte degli antropologi, di adottare metodi di ricerca più legati al visivo e alla concretezza e più atti a cogliere aspetti sensibili e qualitativi dell’esperienza; metodi di restituzione dei risultati più “creativi” e in grado di rendere la sensorialità della realtà e dell’esperienza stessa di ricerca. Negli ormai numerosi casi di effettiva cooperazione in cui il lavoro interdisciplinare viene effettivamente sperimentato e il confronto si fa più stringente, emergono le specificità di metodi e di intenti che rendono i due campi di ricerca complementari; in questi casi risultano evidenziati sia le aree di divaricazione tra le due discipline, sia la grande fecondità del lavoro comune di arte e antropologia.
In A Cielo Aperto la componente etnoantropologica è parte della cornice progettuale complessiva, ed è presente nei diversi interventi. Ma risulta quanto mai esplicita nel progetto Cénte di Wurmkos, che fa infatti riferimento alla figura di Ando Gilardi, studioso di fotografia e fotografo egli stesso, vicino, nelle sue pratiche, allo spirito della ricerca sul campo tipica delle scienze etnoantropologiche e attivo proprio in Basilicata alla fine degli anni Cinquanta.



Cénte consiste nella reinterpretazione di un rito popolare in occasione del quale, un tempo, venivano realizzati e fatti sfilare degli oggetti votivi, oggi quasi scomparsi, le Cénte: dei copricapo scultorei e di ampia dimensione, di natura effimera, in quanto destinati a essere abbandonati alla fine di ogni festa religiosa. Il progetto prende avvio con l’invito a partecipare a un lavoro collettivo di costruzione artigianale, basato su abilità tradizionali, rivitalizzate però con l’immissione di una nuova libertà interpretativa e inventiva, e di nuovi materiali. Cénte si sviluppa poi con l’esperienza performativa di un corteo festoso che si conclude con l’abbandono degli oggetti al bosco e agli agenti atmosferici. Tra la situazione in cui le Cénte vengono realizzate, nel paese, nell’ambito di un lavoro laboratoriale e condiviso, e la drammatizzazione della processione che si espande nel bosco, avviene uno spostamento di registro, con una decisa proiezione nella dimensione del simbolico. Cénte riconnette il passato al presente, il soggettivo al collettivo, il concreto all’inafferrabile. E recupera inoltre il rapporto tra centro storico e paesaggio circostante; un rapporto un tempo fondamentale, che ora invece richiede di essere ricostruito su nuove basi.

Nel suo complesso il progetto fa leva sulla potenzialità di trasformazione e di riattivazione propria dei rituali, evidenziandone la forza e il portato di senso. E le Cénte stesse, manufatti culturali per eccellenza, si prestano al rinnovamento, riuscendo a catalizzare attenzioni ed energie individuali e collettive, che le racchiudono.
A proposito del progetto Cénte è possibile operare un rimando all’opera Tresses, dell’artista del Benin Meschac Gaba, che anni fa creava una serie di copricapo, in fibre naturali o sintetiche, che ricalcano la forma di architetture simbolo del potere – economico, politico, culturale – e dell’identità nazionale di diverse città del mondo, come la Tour Eiffel o l’Empire State Building. Queste sculture indossabili, interpretano, nelle forme e nella pratica che le genera, un modello estetico in uso presso molti paesi africani, quello delle ampie acconciature a trecce, o hair braiding; e nello stesso tempo danno un’eclatante forma visiva al peso della cultura occidentale che, letteralmente, grava sulla testa dei popoli africani. L’artista fa poi vivere l’opera sia sotto forma di sculture, installandole in modo che l’insieme si configuri come un paesaggio urbano, sia nell’ambito di sfilate appositamente orchestrate. Facendo riferimento alla cultura materiale, Gaba avvalora dunque, e omaggia, i costumi tradizionali del proprio popolo, e nello stesso tempo affronta rilevanti tematiche postcoloniali.
Se Gaba accentuava la presenza monumentale delle acconciature femminili nel paesaggio quotidiano di molti paesi africani, le Cénte di Wurmkos, ibride ed effimere, lasciate nel bosco, si esprimono in favore di un’istanza di osmosi, di ciclicità, di continuo rinnovamento.

Anche in questo caso i rimandi possibili sono innumerevoli. Tra tutti emerge l’opera What Do We Really Remember dell’artista greca Maria Papadimitriou. Invitata a concepire un intervento in Puglia, Papadimitriou scopre un’area caratterizzata da un forte legame con la cultura greca, la Grecìa Salentina. Dopo aver indagato le tradizioni legate alla lingua grika e alle memorie personali degli abitanti del paese di Sternatìa, Papadimitriou chiede loro di rievocare antiche canzoni domestiche. Li riunisce in un coro, registra canti e cantilene, nenie e ninnananne, e realizza un’installazione sonora nell’imponente chiostro dell’ex Convento dei Domenicani, situato al centro del paese. L’installazione consiste nel far letteralmente emergere dalla profondità della terra la voce antica della tradizione locale e della cultura grika. Quei canti intimi, da noi stessi attivati nel momento in cui varchiamo la soglia del chiostro del convento, salgono dal pozzo centrale come dai meandri di una profondità psichica, o dai recessi del tempo, e ci guidano fino al pozzo stesso; ma quando ci allunghiamo per guardare nella cavità, le voci si affievoliscono e infine tacciono, inghiottite di nuovo dall’oscurità, come a significare poeticamente l’impossibilità di risalire fino all’origine della memoria, di recuperare il passato nella sua compiutezza. L’intervento prende la forma di un immateriale monumento al griko: questo elemento identitario distintivo, ma capace anche di far riemergere una storia che, in questo caso, accomuna la Grecia e l’Italia.



Anche in questo esempio emergono elementi che accomunano le opere realizzate a Latronico a quelle di molti artisti del mondo. Queste opere fanno leva sulle specificità culturali e sul concetto di memoria - e sulla consapevolezza delle sue falle e delle sue mancanze -; sul senso di consonanza, talvolta di intensa prossimità che può emergere dall’incontro tra l’artista e il luogo; su un portato culturale che è nello stesso tempo collettivo e soggettivo, che è possibile condividere e veicolare.
Nel complesso A Cielo Aperto esprime l’idea che il carattere di un luogo e la sua eredità culturale vadano molto oltre le consuetudini codificate e le credenze tradizionali; che si tratti di archivi vivi, nei confronti dei quali va adottato un atteggiamento attivo: si tratta di riconquistare, reinventare, rigenerare continuamente il tessuto materiale, ma soprattutto quello immateriale, simbolico e relazionale di cui disponiamo.
Negli ultimi decenni il Sud Italia si è manifestato molte volte come laboratorio di progetti rilevanti dal punto di vista degli esiti formali e del significato. La sua ricchezza culturale e le sue stesse complessità contribuiscono alla pregnanza delle iniziative.

Nel panorama complessivo degli interventi sul territorio che hanno avuto campo in quest’area geografica, A Cielo Aperto emerge senz’altro come particolarmente credibile per l’impegno profondo, la lunga durata, la capacità di innestarsi sulle strutture sociali e relazionali e di far leva sulle specificità, per la capacità di proiettarsi in un orizzonte di senso e di rilevanza internazionale.




Associazione Culturale Vincenzo De Luca
L’Associazione Culturale Vincenzo De Luca si costituisce nel 2005 a Latronico, in Basilicata. Dal 2008 promuove, autofinanziandosi, il progetto A Cielo Aperto, curato da Bianco-Valente e Pasquale Campanella, un’occasione per fare il punto sul senso e sui possibili sviluppi dell’arte in relazione a un contesto locale e alle sue specificità. La progettualità praticata nei laboratori è un elemento fondamentale per il dialogo e il coinvolgimento dei cittadini. La politica culturale messa in atto si inserisce nel dibattito in corso sull’arte contemporanea, per lo sviluppo di un localismo consapevole, da cui far emergere storia, forme materiali e simboliche che accrescano il valore di spazio e luogo pubblico.

Info
Associazione culturale Vincenzo De Luca
Vico Settembrini 2 – Latronico (PZ)
Tel 0973 858896, cell. 339 7738963
associazionevincenzodeluca@gmail.com
www.associazionevincenzodeluca.com


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