Il fare dell’arte
Pasquale Campanella

Ai corti orizzonti di un presente senza alternative dobbiamo contrapporre una prospettiva più vasta, più generosa, più degna: quella del bene comune.
Salvatore Settis

Antefatto
Il progetto A Cielo Aperto si confronta con una serie di problematiche sulle “pratiche di produzione artistica partecipate” nell’arte contemporanea e con i suoi protagonisti1.
Espressioni come “arte pubblica”, “arte nello spazio pubblico”, “arte nella sfera pubblica”, nella loro apparente semplicità nascondono una realtà complessa. Questi temi sono stati affrontati durante l’evolversi del progetto che ha evidenziato esigenze e pertinenze specifiche e locali.

A Cielo Aperto nasce all’interno dell’Associazione Culturale Vincenzo De Luca a Latronico in Basilicata. L’Associazione si forma e prende corpo da un bisogno della famiglia De Luca, dei parenti e degli amici, di ricordare Vincenzo, scomparso prematuramente nel 1995.
Vincenzo era operaio e lavorava come tornitore in un’officina meccanica a Sesto San Giovanni, dipingeva ed era amante dell’arte. Così è nata l’Associazione.

È interessante notare come da un bisogno così personale si siano sviluppate dal basso una collaborazione e un’energia contagiose che hanno avuto la capacità di attivare tante persone, anche tra coloro che non hanno conosciuto Vincenzo. L’aspetto partecipativo si è anche manifestato nella sottoscrizione annuale dei soci che hanno investito nei diversi progetti. Non sono stati richiesti fondi pubblici ma una condivisione generale degli obiettivi che ha dato la possibilità agli artisti invitati di installare le loro opere nel tessuto urbano del paese. I laboratori attivati sono stati fondamentali per lo sviluppo dei singoli progetti; molte persone hanno partecipato e instaurato con gli artisti un rapporto di amicizia; i pranzi e le cene sono stati un momento di condivisione dalle caratteristiche familiari, un modo per far sentire tutti a casa propria, ma anche luogo di confronto e discussione.

A Cielo Aperto
Il progetto ha perseguito l’idea di lavorare alla costruzione di un museo diffuso all’aperto, in cui diverse opere permanenti dialogano con l’ambiente montano, e di intervenire nello spazio urbano con progettualità condivise e partecipate.
Gli artisti invitati prima di tutto hanno fatto un sopralluogo, poi una serie di visite e una presentazione pubblica del loro lavoro in luoghi diversi: la Casa canonica, l’aula magna dell’Istituto Comprensivo Benedetto Croce, la sala cinematografica, la piazza. In queste sedi si sono creati i primi presupposti per il soggiorno prolungato nella Residenza d’artista Maddalena Maturo e per le esposizioni nello Spazio Cantisani, luoghi messi a disposizione da privati cittadini.

Negli anni A Cielo Aperto ha coinvolto sempre di più gli abitanti di Latronico, anche quelli che tornano solo nel periodo estivo. L’ospitalità degli artisti ha contribuito nel tempo all’attivazione di una microeconomia.
L’arte può essere un mezzo significativo per lo sviluppo del territorio ma può anche essere un ornamento vuoto, inscritto in una generica attività turistica.
Nella pratica artistica, la relazione e il coinvolgimento non strumentale delle persone che vivono sul territorio d’intervento sono di grande rilevanza, creando momenti di riflessione sulla storia della comunità e recuperando processi vitali, culturali e comunicativi che vanno oltre gli steccati disciplinari, verso una condivisione pubblica.

Nel passato gli interventi di arte pubblica nascevano dal confronto con lo spazio fisico e non con quello sociale. L’elemento scultoreo era preponderante, veniva installato nello spazio pubblico giungendo direttamente dallo studio dell’artista e non teneva conto né dei fruitori né del luogo. A volte era impossibile trovarne una giustificazione, sia spaziale sia di contenuto.
“Tutte queste motivazioni resero il centro della città e in particolare quello storico un luogo problematico: collocarvi una scultura non poteva essere un’operazione neutra”2.

La scultura ha rappresentato, anche in anni più vicini a noi, un altro modello, quello dell’arredo urbano: panchine, fontane, pedane, aiuole che hanno invaso le città. Il pubblico è coinvolto in un rapporto solo strumentale, in cui il soggetto inventa poco, subisce strutture, oggetti, spazi che lo condizionano a percorsi fisici e di pensiero. L’uso pubblico di queste strutture tra design e scultura non basta a giustificarne la presenza.

Il progetto A Cielo Aperto ha cercato un avvicinamento più diretto con la cittadinanza, pensando che in realtà l’atto partecipativo, termine già messo in crisi da Riccardo Dalisi  che è stato il primo a occuparsene in Italia, andasse riformulato, riposizionato.



La progettualità si è praticata soprattutto nei laboratori, luoghi in cui è possibile incontrarsi e “progettare senza pensare”, un percorso da costruire con gli altri e non solo appannaggio degli artisti. La socializzazione è avvenuta in un “rapporto fattuale” e non formalizzato in regole astratte, consentendo ai singoli soggetti di vivere una realtà in cui identità, senso e fine sono stati trovati durante il percorso. Questa è stata la premessa che ha dato ai partecipanti la possibilità di fare, non adattandosi a un ambiente precostituito e, attraverso l’azione, di inventare e di rinnovare.

Questa pratica si è in seguito riversata nello spazio pubblico, vissuto non come un contenitore neutro, com’è avvenuto in molte esperienze degli anni Sessanta, ma connotato dalla storia e dalle biografie delle persone di questi luoghi.
Gli interventi degli artisti si sono concentrati prevalentemente nella parte alta del paese, Capadavutu: il centro storico oggi in parte vuoto e in abbandono per la forte emigrazione iniziata dagli anni Settanta e in seguito al sisma degli anni Ottanta, quando molti cittadini lasciarono la casa per costruirla ai piedi del monte Alpi, nella parte bassa, Capabbasciu.

Le opere Faro, 2009, di Michele Giangrande; Richard Parker è a Latronico, 2009, di Giuseppe Teofilo; Una bandiera per Latronico, 2010, di Eugenio Tibaldi; Una parola su Latronico, 2011, di Stefano Boccalini; Gli occhi del mondo, 2013, di Virginia Zanetti; Centocapre, 2014, di Francesco Bertelé, Madely Schott, Giuseppe Giacoia, Pietro Rigolo; Ogni dove, 2015, di Bianco-Valente, sono state realizzate, quasi tutte, a Capadavutu.



Da una parte vi è il fascino del centro storico di origine medioevale, dall’altra l’idea di portare la gente di Latronico a riprendersi una parte della sua storia, ripercorrendo le carrare, i piccoli e stretti vicoli, come un tempo. Gli artisti hanno considerato questo strappo e hanno provato a risanarlo, rioccupandolo fisicamente con opere permanenti che inducono a girovagare in quel labirinto di architettura spontanea e vernacolare, per cercarle e incrociarle.

L’aspetto sociologico e antropologico è divenuto fonte di ispirazione per diversi interventi artistici: The Future of the Country, 2010, di Elisa Laraia; Cénte 2010/2013, di Wurmkos; Collateral Landscape, 2013/2014, di Antonio Ottomanelli; Domini Públic Children Version, 2013, di Elisa Fontana e nei progetti o opere già citati di Bertelé, Bianco-Valente, Boccalini e Tibaldi. Gli artisti hanno interpretato l’identità e la memoria storica come un dispositivo reale che vede il rito, la magia cerimoniale lucana e la cultura contadina nella sua attualizzazione.



Mettere in rapporto l’arte con i luoghi non è più solo site-specific, cioè progettare, costruire l’opera esclusivamente per quel luogo, ma significa avere quella attenzione disciplinare “al territorio come bene comune nella sua identità storica, culturale, sociale e ambientale” di cui parla Alberto Magnaghi3.  Questi interventi a diversi livelli hanno posto il problema della “polverizzazione identitaria” messa in atto da processi storici locali e nazionali per riportare  i cittadini e gli enti locali a riprendere in considerazione problemi assopiti da lungo tempo. Far rivivere le opere “nei luoghi stessi nei quali si svolge la vita di ogni giorno” oggi non è più sufficiente, nonostante ci siano tante iniziative di public art che lavorano con queste finalità.
A Cielo Aperto ha voluto superare la pedagogia dell’arte e concepire la città come opera. “Certo sul tema arte nella città i dubbi e le insidie sono parecchi. L’arte può diventare strumento di manipolazione, di controllo sociale ed essere funzionale a strategie di valorizzazione del capitale perché, per esempio, gli spazi creativamente manipolati si riempiono di fashion shop, ristoranti trendy, eccetera”4. A Latronico è prevalso quello che Nicolas Bourriaud definisce “identità radicante”, metafora dell’edera che trova il suo sviluppo mettendo le radici strada facendo. Si è determinato così un rapporto ad personam, più che un’azione congiunta con i politici locali e regionali.

È un territorio in continua definizione in cui, insieme a gruppi di cittadini, a volte, si è scelto anche il luogo in cui porre l’opera permanente; ad esempio, per Una bandiera per Latronico di Eugenio Tibaldi, c’è stata una vera e propria elezione nel paese e nella frazione di Agromonte. L’artista si era reso conto che il Comune di Latronico aveva uno stendardo ma non una bandiera. Decise di coinvolgere nel progetto sia i cittadini residenti sia gli emigrati, attraverso il porta a porta e la rete, con un puntiglioso questionario, in cui venivano chiesti simboli, colori, forma, elementi storici e paesaggistici. La bandiera più votata è stata adottata poi dal Comune.



Il progetto Collateral Landscape di Antonio Ottomanelli si è rivolto agli studenti del Liceo Scientifico De Sarloche hanno segnalato nel workshop i luoghi in cui inserire i Memory box Latronico, veri e propri contenitori di raccolta di opinioni e foto su e del territorio. Questo percorso ha visto nella fotografia di paesaggio uno degli elementi più importanti per parlare della descrizione e della conoscenza di un luogo.
Il modo di procedere è stato quello di rifiutare approcci meramente formalistici, per non “colonizzare” un ambiente ma sviluppare una progettualità che conducesse alla definizione di un museo all’aperto. L’artista Piero Gilardi afferma che le esperienze di questo tipo hanno oggi una dimensione plurima: l’arte esce dal museo, entra nel territorio urbano e non si limita più a creare un dialogo tra entità collettive, ma implica una concatenazione di concetti complessi che dà vita a un’arte plurale.

I musei all’aperto sono molto diffusi sia in Europa che altrove, ma la maggior parte di essi sono stati pensati come luoghi turistici o didattici, mentre è mancata una spinta verso un museo che si contaminasse con la realtà.
Luogo accessibile e aperto a tutte le suggestioni, nel museo A Cielo Aperto incontriamo persone che ci inviteranno a bere un caffé, sentiremo odori di cucina, i rumori della quotidianità, la brezza estiva o il freddo gelido e umido di un vento di tramontana. Sono elementi che interagiscono con le opere cambiandone la comune percezione. Il pubblico non è pensato solo come visitatore al quale si chiede un biglietto di ingresso, ma viene coinvolto a sperimentare uno spazio di crescita individuale e collettiva, per riscoprire la città, per dare voce a esigenze e bisogni.

La scelta dell’Associazione e il presupposto del progetto A Cielo Aperto è stata quella di una progettualità che si sviluppa fuori dalle strutture e dagli spazi canonici del mondo dell’arte contemporanea. Si sono invitati artisti che, pur con grandi differenze, lavorano nello spazio pubblico e si pongono come ricettori di esigenze e criticità, captano storie, vivono il territorio e restituiscono umori e sensazioni che chiedono costanti verifiche e approfondimenti.



Lo spazio pubblico è la costituzione di uno spazio più esteso in cui “la funzione comunicativa e politica di queste pratiche, volte allo scambio interpersonale e alla stimolazione di un pensiero critico o di un’azione per il cambiamento, ci conduce a riflettere, infine, intorno alla partecipazione, concetto fondamentale del dibattito artistico contemporaneo”5.

Il concetto di partecipazione delle comunità non va idealizzato, non esistono progetti in cui non ci siano dei problemi; il sociale non è un corpo liscio e levigato, ma al contrario denso di differenze, plurale e per niente coerente. La sola partecipazione non è risolutiva di problemi sociali locali che sono legati a un ben più ampio corpo di problematiche politiche e strutturali. L’arte, in questi dieci anni di lavoro, ha avuto la capacità di smuovere e ridare volto a una condizione bloccata da una situazione economica pesante; solo in una seconda fase si potrà implementare un serio lavoro sul territorio e sul terziario avanzato, su piccole reti di laboratori di ricerca che dalle criticità possano migliorare le reali qualità della vita.

Questi progetti di arte pubblica hanno avuto un ruolo importante, rivendicano l’esistenza e la resistenza a una condizione di marginalità, il desiderio di partecipazione e di appropriazione dello spazio.   
Nelle pratiche sviluppate a Latronico gli esiti non hanno una destinazione utilitaristica; la valutazione estetica non è assolutamente vincolata al valore d’uso. I progetti sono stati conduttori di storie locali in cui si è dato ampio respiro ad aspetti sociologici, antropologici e politici, ma anche fiabeschi e popolari, congiunti ai vissuti personali degli abitanti. Alcuni esiti, pur mantenendo apparentemente un criterio site specific, in realtà incarnano un vero e proprio interesse pubblico perché sono segni evidenti di un “valore” in cui la maggior parte dei cittadini si identifica o si riconosce.

L’opera di Bianco-Valente Ogni dove è un “monumento/antimonumento” che lega insieme emotivamente coloro che vivono a Latronico con coloro che sono emigrati. Cénte di Wurmkos ricrea un vortice storico in cui i riti pagani contadini e i luoghi una volta in uso e poi dimenticati, vengono ripristinati manifestando la volontà di riappropriarsi del patrimonio culturale. Centocapre di Francesco Bertelé ha coinvolto buona parte del paese, lavorando sull’immaginario di un personaggio di cui si sono perse le tracce, in un buco storico di duecento anni; personaggio vero o leggendario che fosse, Centocapre si è manifestato attraverso oggetti trovati nelle case di privati cittadini, nelle campagne o nei boschi. È stata questa un’opera corale che ha indagato diversi livelli di comunicazione personale e interpersonale. Elisa Fontana in Domini Públic Children Version, ha costruito il “dominio pubblico dei bambini” con i piccoli cittadini di Latronico; nella performance pubblica di piazza è emersa una riflessione sui rapporti tra genitori e figli attraverso un gioco ironico e buffo.



Non sempre l’informazione visuale o politica è stata l’origine della struttura degli interventi.
Gli occhi del mondo di Virginia Zanetti ha sviluppato una mappa emozionale, in collaborazione con gli abitanti, sui luoghi dell’infanzia o sul ricordo di persone care. I luoghi sono stati segnati da specchi tondi di diversa grandezza che enfatizzano la presenza e la magia della natura. Un percorso analogo di relazione è confluito nel progetto The Future of the Country di Elisa Laraia, dove raccontare un segreto e renderlo pubblico diventa una grande proiezione sul palazzo principale della piazza di Latronico. Queste “storie particolari” hanno legato l’artista in una stretta e profonda relazione con la comunità e sono riuscite a captare o a indicare i cambiamenti del paese e a mettere in discussione categorie culturali preesistenti.
Altra modalità di intervento è il Faro di Michele Giangrande, installato sul campanile della chiesa di San Nicola dove la luce resta accesa di notte per 64 secondi, in memoria di 52 morti e dispersi e 12 mutilati e invalidi, un tributo che Latronico ha pagato alla Prima guerra mondiale. Il campanile, visibile da tutto il paese, si trasforma così in una sorta di “faro”, simbolo della memoria storica. Richard Parker è a Latronico di Giuseppe Teofilo nasce dall’idea di “tappezzare” il paese con manifesti simili a quelli che annunciano l’arrivo di un circo, ma in realtà sono avvisi per la presunta fuga di una “pericolosa tigre”, metafora permeata di magia, in cui la sicurezza apparente del luogo è interrotta e messa in allarme.

Artista
La progettualità complessa di un intervento pubblico come A Cielo Aperto pone problemi rispetto alla figura dell’artista. Enrico Crispolti lo ha definito, negli anni Settanta, operatore culturale ed estetico, superando l’idea dell’artista solipsistico e portatore unico di cultura. Negli anni Novanta questo concetto trova un nuovo significato nella New genre public art di Suzanne Lacy, in cui le persone sono centrali nella realizzazione di un progetto pubblico. A partire da questa considerazione, l’arte non è pensata come semplice oggetto da vedere ma come una pratica di condivisione, fin dalla fase iniziale. Un processo che può condurre, attraverso vari frame, a progettare un’opera o a non produrre nulla. Gli storici dell’arte Claire Bishop e Grand Kester hanno discusso sull’autorialità o la rinuncia da parte dell’artista, sull’arte socialmente impegnata o sulla qualità artistica di un’opera. La Bishop sostiene che “rendere il dialogo un mezzo artistico o il significato della smaterializzazione di un progetto in un processo sociale (…) possa essere ritenuto un successo se agisce sul piano dell’intervento sociale, anche se cola a picco sul piano dell’arte”6.



Esiste un terreno dove i due opposti possono incontrarsi?
Questi argomenti sono stati alla base di processi che non volevano a tutti i costi essere ingabbiati in teorizzazioni o semplici procedure di autocertificazione della partecipazione. I curatori del progetto, cioè chi scrive e il duo artistico Bianco-Valente, sono sempre stati sotto l’occhio vigile dei soci dell’Associazione che faticavano a capire fino in fondo di cosa stessimo parlando, e questo colloca il progetto in un ambito di difficoltà necessaria al suo sviluppo. Gli inviti ad artisti, nella stragrande maggioranza dell’ultima generazione, sono stati voluti perché si è ritenuto di riconoscere in loro un atteggiamento “altro” anche relativamente alla questione dell’oggetto/non oggetto.
“Forse è vero che dobbiamo scegliere tra etica ed estetica. Ma è anche vero che qualunque cosa si scelga si trova sempre l’altra alla fine del percorso (…) Non vedo alcuna differenza tra etica ed estetica, credo che tutto ciò che facciamo è politica”7.

Le pratiche messe in atto a Latronico non hanno escluso l’opera dal proprio percorso. Ci siamo interrogati su quanto fosse necessario che ogni progetto conducesse a un esito finale visibile, non necessariamente diretto alla produzione di oggetti. A volte sono state azioni ed eventi che non hanno lasciato tracce permanenti nello spazio urbano. Il workshop di Andrea Gabriele e di Andrea Di Cesare ha lavorato su un tema che vedeva coinvolta la fascia giovanile, dove il trait d’union era l’elemento sonoro. Un suono che è stato catturato dal paesaggio e poi rielaborato per essere restituito sotto forma di evento performativo e non come un oggetto tangibile e visibile. La performance, oltre al suono, coinvolgeva anche l’olfatto e il tatto – era negata solo la vista in quanto i partecipanti erano bendati e sulle bende erano stati disegnati gli occhi. Caldo, freddo, sonorità, emozioni, conducevano i partecipanti all’azione a vivere un rito collettivo che si è consumato nel suo continuo divenire.  



In altre occasioni gli oggetti sono stati attivatori di processi e rapporti tra le persone, come in Una parola su Latronico di Stefano Boccalini. L’artista ha utilizzato l’idea della cartolina come tramite tra sé e la gente del paese. Ha chiesto loro di scrivere una sola parola sulla cartolina, che identificasse in modo specifico un aspetto socio-economico, di tradizione storica o una suggestione del paese. Il materiale raccolto è servito a definire il successivo intervento, dove alcune parole sono state intagliate in ferro corten e installate nella parte alta del paese. Significativa la parola “ritorno” affissa sulla casa di Elisabetta De Luca, presidente dell’Associazione, tornata a Latronico dopo trentacinque anni di lavoro nel Nord Italia.
Gli artisti hanno capovolto il processo creativo, non più un lavoro anticipatorio ma l’attivazione concreta di politiche culturali sostenibili che avvengono attraverso lo scambio, senza negare un approccio poetico al proprio lavoro.

Infatti l’arte, oggi più che mai, ha bisogno di esercitare il proprio “potere immaginativo” attraverso cose concrete e non avulse da contesti territoriali specifici. La dimensione locale è fondamentale per progettare in modo peculiare e non generico e ciò che viene pensato per un luogo non è sempre esportabile altrove. I localismi non sono più vissuti come i caratteri di un territorio limitato e chiuso su se stesso perché oggi non c’è identità locale senza un’appartenenza globale.

Note
1. Per un approfondimento sulle tematiche relative all’arte pubblica si rimanda a: Lorenza Perelli, Public Art, arte, interazione e progetto urbano, Franco Angeli, Milano, 2006; L’arte pubblica nello spazio urbano, a cura di Carlo Birozzi e Marina Pugliese,Mondadori, Milano, 2007; Nuovi Committenti, arte contemporanea, società e spazio pubblico, a cura di a.titolo,Silvana Editoriale, Milano, 2008; L’arte fuori dal museo, saggi e interviste, a cura di Elisabetta Cristallini, Gangemi Editore, Roma, 2008; Paesaggio con figura, arte, sfera pubblica e trasformazione sociale, a cura di Gabi Scardi, Umberto Allemandi, Torino, 2011; Cecilia Guida, Spatial Practices, funzione pubblica e politica dell’arte nella società delle reti, Franco Angeli, Milano, 2012; Elisabetta Calasso e Marco Scotini, Politiche della Memoria, Derive Approdi, Roma, 2014; Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano, l’esperienza italiana dal 1968 a oggi, Johan&Levi, Monza, 2015.
2. Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano, l’esperienza italiana dal 1968 a oggi, Johan&Levi, Monza, 2015, p. 75.
3. Si rimanda per un’analisi più approfondita alla terza stesura che integra i contributi pervenuti per il congresso della bozza di Manifesto della Società dei Territorialisti: www.societadeiterritorialisti.it/index.php?option=com_content&view=article&id=425&Itemid=69.
4. L’arte fuori dal museo, saggi e interviste, a cura di Elisabetta Cristallini, Gangemi Editore, Roma, 2008, p. 29.
5. Cecilia Guida, Spatial Practices, funzione pubblica e politica dell’arte nella società delle reti, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 29.
6. Paesaggio con figura. Arte, sfera pubblica e trasformazione sociale, a cura di Gabi Scardi, Umberto Allemandi, Torino, 2011, pp. 142, 143.
7. Alfredo Jaar, in S. Cortesini, Sull’arte e l’impegno politico: un dialogo con Jaar dopo la sua conferenza al MACRO, “Luxflux”, n. 5, gennaio-febbraio 2004.




Associazione Culturale Vincenzo De Luca
L’Associazione Culturale Vincenzo De Luca si costituisce nel 2005 a Latronico, in Basilicata. Dal 2008 promuove, autofinanziandosi, il progetto A Cielo Aperto, curato da Bianco-Valente e Pasquale Campanella, un’occasione per fare il punto sul senso e sui possibili sviluppi dell’arte in relazione a un contesto locale e alle sue specificità. La progettualità praticata nei laboratori è un elemento fondamentale per il dialogo e il coinvolgimento dei cittadini. La politica culturale messa in atto si inserisce nel dibattito in corso sull’arte contemporanea, per lo sviluppo di un localismo consapevole, da cui far emergere storia, forme materiali e simboliche che accrescano il valore di spazio e luogo pubblico.

Info
Associazione culturale Vincenzo De Luca
Vico Settembrini 2 – Latronico (PZ)
Tel 0973 858896, cell. 339 7738963
associazionevincenzodeluca@gmail.com
www.associazionevincenzodeluca.com


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